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59' Biennale di Venezia

La Biennale di Venezia è una lente di ingrandimento sullo stato dell’arte contemporanea a livello internazionale, o almeno così dovrebbe essere. Sicuramente negli ultimi anni - per non dire decenni- è diventato anche e soprattutto un evento mediatico e mondano. La 59esima edizione, appena inaugurata, non è stata risparmiata in tal senso ed ha avuto, da subito, i riflettori puntati da molto prima della sua apertura.
Noi de La Nuova Maniera eravamo lì in questi giorni di partenza; giorni che, a onor del vero, ci hanno permesso di riorganizzare anche le aspettative di questo nostro piccolo spazio, facendo emergere specifiche considerazioni e spunti critici per dei prossimi appuntamenti, con dibattiti e conversazioni artistiche, che siamo pronte a rimettere in tavola.
Ma torniamo a noi. Il latte dei sogni -titolo che abbiamo trovato un po' dissonante con la proposta artistica - è la Biennale tanto desiderata e bramata da tutti i protagonisti del settore, ma anche dai semplici appassionati della materia, dopo anni di fermo. Sarebbe dovuta essere principalmente la Biennale della ripartenza, lo specchio riflesso dell'arte contemporanea, dei contenuti e del sociale. È stata sicuramente la Biennale dei social-network e dei rotocalchi, delle chiacchiere da bar, amata e odiata al tempo stesso come ogni grande evento che si rispetti. L’anno di ritardo, a causa pandemia, ha generato fermento e attesa e questo forse ha fatto sì che l’attenzione venisse puntata più che sulle opere e sugli artisti, sulla mondanità ed i gossip dei protagonisti. O probabilmente ha solo confermato ciò che pensiamo da tempo e cioè che l'arte stia perdendo il valore nei contenuti, nella riflessione e nella denuncia, nei dibattiti e nello scambio di opinione, per dare spazio alle vetrine e alla vacuità delle superfici degli egocentrismi artistici.
Questa convinzione, però, è scemata, in parte, una volta varcata la porta dell'Arsenale: dobbiamo dare atto che il lavoro della direzione artistica di Cecilia Alemani è stato, nel complesso, di qualità, di ricerca - a parte qualche immancabile boiata - soprattutto nei settori curati ed è stato un lavoro che colpisce lo spettatore, sicuramente, anche per il forte impatto scenografico che gli allestimenti hanno creato negli occhi degli astanti.
Alcuni padiglioni sono stati originali e interessanti: meritano menzione dal canto nostro, quello del Belgio che vede un unico artista, Francis Alys, che dedica al gioco infantile tutta la personale “Nature of the Game”, o anche Zineb Sedira che trasforma il padiglione francese in un suggestivo set cinematografico con il suo “Dreams no have title”, o ancora uno scenografico padiglione Maltese.
Non sono mancate, però, le assenze e le ambiguità che abbiamo incontrato soprattutto in alcune scelte di contenuto, troppo - come amiamo definirle oggi - orientate ad un estremo “politicamente corretto”. L’hanno definita la Biennale delle donne, e non possiamo non considerarla tale, a giudicare dalla netta maggioranza in numero delle artiste al femminile: 213 artiste a discapito di un esiguo 58 di artisti uomini. Una scelta arbitrariamente voluta, ma che a nostro parere, non può essere considerata una vittoria di genere. Ci sembra, piuttosto, una rivalsa che concretamente non conduce a nessuna conquista. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le donne hanno ancora tanta strada da percorrere per raggiungere una parità, in molteplici ambiti della nostra e delle altrui società, d'accordo sul fatto che la storia dell'arte sia stata ingenerosa nei secoli col genere femminile; ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta per giungere verso la meta? Potrebbe essere, invece, questo, una modalità di emarginazione all’opposto? Esasperare, estremizzare qualcosa a discapito di altro, quasi cercando di annullarlo, cancellarlo. Fin quando noi donne continueremo a sentirci una specie protetta e da proteggere, non riusciremo mai del tutto ad essere considerate persone, con pari diritti e senza diversità. Forse una scelta equa tra il numero di donne e di maschi ci avrebbe convinto di più o perlomeno avrebbe addolcito la nostra diffidenza verso una demarcazione "di tendenza".
Similari atteggiamenti che abbiamo potuto riscontrare nel voler concentrare lo sguardo e la visione nei confronti di tutta una serie di argomentazioni “calde” come la decolonizzazione dell’arte e della cultura, la diversità di genere e di inclinazione sessuale.
Un orientamento decisamente politically correct che, forse, ha condizionato anche nella scelta dei premi, come, a nostro avviso, nel caso del padiglione della Gran Bretagna: una scelta dettata quasi dalle circostanze. Il lavoro di Sonia Boyce dal titolo “Feeling her Way” sembrava studiata a tavolino per un'ipotetica vittoria, non ha osato né ci ha scatenato emozioni o riflessioni.
Un capitolo a parte è da dedicare al padiglione Italia, vero e proprio catalizzatore dell’intera manifestazione. La scelta del curatore Eugenio Viola di invitare Gian Maria Tosatti, come unico artista, ha fatto arricciare molti nasi critici, innescando da subito parecchio pregiudizio. È indubbio che entrambi i protagonisti siano due personalità carismatiche e per questo non nelle corde di tutti, ma il punto della questione da porre sotto la lente è sempre lo stesso: si deve parlare di arte o di personaggi?
Se dobbiamo parlare di arte, e in questo caso lo faremo, non si può non riconoscere l'idea scenografica, il grande lavoro di tecnica e cura dei minimi dettagli, realizzato da Tosatti, in stretta sinergia con lo spirito del curatore Viola. "Storia della Notte e Destino delle comete" - anche qui sul titolo avremmo da ridire - è sicuramente un lavoro molto intellettuale, ricco di rimandi e citazioni - su tutti quella di Pasolini - che in alcuni momenti sembravano un po' strabordare fino a diventare superflue, ma le sensazioni di straniamento, alienazione e sospensione che ci ha regalato la permanenza nel padiglione Italia, completamente riadattato e plasmato dalle mani e l’ingegno dell’artista, è indubbio, come è indubbio che rimarrà nella memoria di tutti per molto tempo.
Ogni dettaglio è stato studiato e ricercato nei minimi particolari, il mare con le lucciole, poi, per un attimo fa dimenticare le coordinate spazio-temporali del luogo in questione. Potremmo definirlo un esperimento "kolossal" dell’arte contemporanea italiana, al quale non siamo molto abituati: gli alti costi, le grandi campagne promozionali che lo hanno caratterizzato in questi mesi, hanno catalizzato inevitabilmente anche l’attenzione del pubblico. Magari si perde d'impatto l'attenzione verso il rapporto tra uomo e ambiente - tante volte citato dai due nelle interviste precedenti l'inaugurazione - ma la tematica è chiara, così come il contesto e la scelta della messinscena coinvolge tutti, placando ogni intenzione di critica oppositiva. Della serie: non è un'arte che ci appartiene, potremmo anche parlarne male perché i film stile hollywoodiano non li preferiamo, ma in questo caso non sarebbe giusto.

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